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Premessa: detesto gli spoiler e mi arrabbio moltissimo quando mi spoilerano un film, un episodio di una serie tv o anche un film. Lo odio da quando a 8 anni mi raccontarono come finisce Zanna Bianca – trauma infantile dal quale non mi sono più ripresa.
Quindi ve lo dico subito: questo post potrebbe contenere spoiler. Farò del mio meglio per non svelare parti della trama, ma se non avete visto Blade Runner 2049 mettete questa pagina tra i bookmark e tornate a leggerla solo quando avrete visto il film.
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Se mi seguite su Instagram avrete visto dalle due stories che ho postato il 5 Ottobre che sono andata a vedere in anteprima Blade Runner 2049. Non lo dovevo recensire per lavoro, è stata una scelta puramente personale. Non avevo nemmeno l’accredito stampa. E non pensavo di scriverne sul blog, dove in genere non scrivo di cinema – tanto da aver dovuto creare una nuova rubrica che si chiama appunto “di solito non scrivo di cinema”, proprio per essere chiari.
Una volta scrivevo recensioni cinematografiche, di quelle serie, ma questa è un’altra storia e ormai sono fuori dal tunnel. Quindi questa non è una recensione propriamente detta. Diciamo che si tratta di una serie di riflessioni suscitate dalla visione di un film che fornisce molti spunti a chi come me si occupa di arte, letteratura e in senso più ampio di cultura.
Ma cominciamo dall’inizio: sono una grandissima fan del Blade Runner originale, quello in versione Final Cut. E sono anche una fan del romanzo di Phillip K. Dick Do Androids Dream of Electric Sheep? (in italiano tradotto prima come Il cacciatore di androidi e poi più correttamente Ma gli androidi sognano pecore elettriche?).
Più in generale mi piace la fantascienza distopica e in termini cinematografici Blade Runner è sicuramente una delle pietre miliari del genere, almeno al cinema. A sua volta il film del 1982 aveva una serie di riferimenti visivi, cinematografici, culturali che lo rendevano unico. Dai noir dell’epoca d’oro di Hollywood e dei romanzi di Chandler agli scenari futuristici di Metropolis, dalle architetture di Sant’Elia ai comics d’avanguardia di Métal Hurlant, tutto questo e molto altro si fonde perfettamente in un prodotto che regge perfettamente il passaggio del tempo.
Blade Runner 2049: quando il sequel va oltre l’originale
Per tutti questi motivi dire che ero scettica rispetto al sequel è riduttivo. Ero proprio sicura che sarei uscita delusa, nonostante la bravura del regista e nonostante Ryan Gosling sia tra i miei attori preferiti.
Invece sono uscita dal cinema senza parole. Infatti avrei potuto scrivere questa recensione appena arrivata a casa, ma ho aspettato volutamente un paio di giorni per riflettere. Sì perché Blade Runner 2049 non solo è un sequel all’altezza del precedente – che già è una cosa rarissima – ma riesce a spingersi oltre rispetto all’originale, senza mai tradirlo. Anzi riuscendo a scavare in profondità rispetto ad alcuni temi che nel primo film erano appena accennati.
In questo senso il regista Denis Villeneuve si avvicina molto di più alla scrittura di Phillip K. Dick di quanto non abbia fatto Ridley Scott nel suo Blade Runner. E comunque, se non avete visto il primo Blade Runner, andate comunque al cinema: il film funziona perfettamente anche da solo, grazie a una scrittura solida, una regia impeccabile e una fotografia che da sola vale il prezzo del biglietto.
Ho accennato alla scrittura solidissima. Blade Runner 2049 mi è piaciuto così tanto proprio perché riesce a legare insieme cinema, letteratura, arte e filosofia meglio del film originale. Il film infatti è un unico grande ipertesto, con riferimenti continui ad altri universi, a cominciare da quello del film originale.
Ma dove altri registi si sarebbero limitati a strizzare l’occhio al fan accanito con semplici dettagli lanciati qua e là presi dal film precedente, Villeneuve costruisce invece un film completamente speculare al primo. Molte scene infatti riflettono simmetricamente quelle originali, così come aspetto e costumi dei protagonisti e anche le location sono chiaramente il riflesso speculare di elementi del primo film.
Ma è uno specchio distorto, e alcuni significativi dettagli sono fuori posto: gli origami di Gaff e gli animali in legno che compaiono nella nuova storia; il volto di Ryan Gosling illuminato di blu sotto la pioggia in una delle scene finali è perfettamente sovrapponibile alla stessa scena di Batty nel film del 1982; e ancora K che sfonda un muro durante la sua corsa, riprende la celebre scena della replicante che infrange le vetrine nel film di Scott. E che dire delle api? Potremmo andare avanti per ore elencando i punti di contatto. Trovare tutte le consonanze e le dissonanze sta allo spettatore, che si troverà a dover terminare questo grande, immenso puzzle.
Sì perché Blade Runner 2049 è un film che pone più domande di quante non ne risolva. Ad esempio: Deckard è un replicante? Se ve lo state chiedendo dal 1982 potreste uscire dal cinema con ancora qualche dubbio in merito. E forse potreste anche chiedervi se questo alla fine sia un dettaglio veramente importante. Qualcosa suggerisce – almeno secondo me – che siamo tutti imbrigliati in un disegno più grande di noi, e questa apparente simmetria potrebbe essere solo frutto di uno schema predeterminato che si ripete all’infinito. Questo toglierebbe a tutti – replicanti e non – l‘illusione del libero arbitrio.
Artificiale, virtuale e reale
Già nel film del 1982 si parlava di temi come l’Intelligenza Artificiale, la bio-etica e in genere il rapporto dell’essere umano con realtà sempre più artificiali o virtuali. Insieme a questo c’era l’ossessione – tipica di Phillip K. Dick – per il controllo da parte di grandi corporation e sistemi di polizia sempre più invadenti grazie a una tecnologia sempre più sofisticata. Tutte questioni profetiche per gli anni ’80, ma che oggi sono attualissime.
Chiunque si occupi di tecnologia – in qualunque declinazione – troverà questo sequel ricco di spunti di riflessione. Tutto infatti sembra ruotare attorno a questioni come la natura della consapevolezza, ai concetti di mente e anima e alla possibilità – o all’opportunità – di riprodurle in un androide.
Questioni vecchie come l’uomo, o almeno come il mito creato dall’uomo. Perché ‘K’ – il protagonista, interpretato da Ryan Gosling – in fondo non è che un Prometeo del futuro e il segreto che protegge è il fuoco che regalerà all’umanità. E le domande tutto sommato sono sempre quelle sollevate sin dai filosofi dell’antichità: come può la mente conoscere la mente? Come può l’occhio guardare sé stesso? Per non parlare in epoca più recente dell’imitation game di Turing che ha tenuto occupate generazione di filosofi e scienziati cognitivi.
Ma in 35 anni la tecnologia è appunto andata oltre. Se nel 1982 un androide che riproduce linguaggio ed espressioni facciali tipicamente umane era fantascienza, oggi è una realtà che vediamo quotidianamente nelle fiere.
Oggi il problema non è più solo distinguere tra naturale e artificiale, ma come rapportarsi con un progresso tecnologico così rapido e se porre limiti e restrizioni per governarlo. Forse qualcuno di noi l’ha presa come uno scherzo o una faccenda inutile, ma lo scorso Febbraio il Parlamento Europeo ha veramente approvato una risoluzione relativa alla robotica che è di fatto un primo passo verso lo studio di una legislazione specifica. Una risoluzione che, in modo sorprendente, non parte dal linguaggio burocratico, ma citando miti e opere di fantascienza – nello specifico le leggi della robotica di Asimov, il mito del Golem e Pigmalione.
Che sia chiaro, Blade Runner 2049 non è il primo film che si interroga sull’opportunità di “giocare a fare Dio”, e nemmeno il primo a indagare i problemi etici, psicologici emotivi del rapporto con esseri interamente artificiali. E ancora negli ultimi anni il cinema ha già frequentato il tema del rapporto con entità puramente virtuali – da Hal 9000 di 2001 Odissea nello Spazio a S1m0ne fino al recentissimo Her.
Ma Villeneuve va oltre, e il rapporto tra K e l’ologramma intelligente Joi è qualcosa che ancora non avevamo visto sul grande schermo – e non parlo solo degli effetti speciali. Un rapporto che fa riflettere sul significato di temi come identità, amore, dedizione, sacrificio, questioni che pensiamo troppo umane per essere sintetizzate.
Tra cinema, arte e letteratura
Ma la cosa che mi ha colpito maggiormente di questo film è il modo in cui è costruito. Come ho scritto sopra ho apprezzato la struttura speculare rispetto al film precedente. Ma in realtà Blade Runner 2049 funziona benissimo anche come film individuale, e anche chi non ha mai visto l’originale si troverà a suo agio. Non è facile e non era scontato.
Ma il film è costruito bene anche da un altro punto di vista. In pratica è come se riuscisse a inserire la storia principale – la trama vera e propria – in una sorta di macro storia più grande, appena accennata, ma che apre a un mondo di suggestioni da vertigine.
Uscendo dal cinema si ha infatti l’impressione di non aver assistito a una storia lineare, ma viene da pensare a un frattale. Un frattale è letteralmente un oggetto geometrico che “si ripete nella sua forma allo stesso modo su scale diverse, e dunque ingrandendo una qualunque sua parte si ottiene una figura simile all’originale” (fonte: Wikipedia). Il frattale ha anche una particolari elementi di simmetria interna.
Ora, il frattale è un tipo di struttura che si trova in natura, ad esempio nelle strutture dei cristalli di ghiaccio e di molte piante. Sapete qual’è la proverbiale ciliegina sulla torta? Blade Runner 2049 si apre con due voci che ripetono frasi apparentemente simili a scioglilingua – ma che guarda caso parlano di cellule intrecciate tra loro. Senza svelare troppo – magari qualcuno ha ignorato il disclaimer in cima a questa pagina – più avanti nel film capiamo che queste frasi sono un test che viene somministrato ai replicanti per valutarne lo stato alla fine di una missione che ha provocato un qualche trauma.
Se avete visto il film avete fatto caso alle frasi che il computer chiede di ripetere?
Cells interlinked within cells interlinked
Within one stem. And dreadfully distinct
Against the dark, a tall white fountain played.
Io ero sicura di averle già lette, e appena uscita dal cinema ho controllato – grazie internet! – e si tratta di versi tratti da un testo di Nabokov, Fuoco pallido (in Italia pubblicato da Adelphi). Perché questo dovrebbe fare la differenza? Intanto perché Villeneuve non è certo uno che sparge dettagli a caso. E poi perché il Fuoco pallido non è un romanzo qualunque.
Si tratta di un poema di ben 999 versi (sì, anche qui uno schema simmetrico) scritto da un immaginario poeta, John Shade. Il poema racconta vicende che riguardano il suo autore, ma per il lettore è racchiuso in un commento al poema stesso. Chi scrive il commento? Un accademico, che ha avuto a che fare con Shade – e questo innesca un’altra storia.
Insomma, Fuoco pallido è una storia avvolta in un’altra storia, che a sua volta rimanda a un’altra storia in un complicatissimo gioco di scatole cinesi. Un po’ come questo film.
Se siete curiosi la strofa da cui sono tratte le frasi del test in italiano è stato tradotto così:
Un sole di gomma fu squassato, e tramontò; e un nulla nero-sangue si mise a far girare un sistema di cellule intrecciate con cellule intrecciate con cellule intrecciate dentro un unico stelo. E spaventosamente nitida, sullo sfondo di tenebra, una candida fonte zampillò.
Vladimir Nabokov, Fuoco pallido, traduzione di Franca Pece e Anna Raffetto per l’edizione italiana Adelphi (2002)
Ma ci sono varie parti del poema che sono abbastanza suggestive rispetto ad elementi della trama.
In conclusione
Per tutti i motivi che ho elencato, vi consiglio di fare un salto al cinema per vedere Blade Runner 2049. E di andarci con mente aperta, sedendovi sulla poltrona e godendovi lo spettacolo. Perché prima di tutto questo è un grande spettacolo, girato magnificamente e impeccabile dal punto di vista visivo, e con un sonoro che probabilmente vi stupirà. Poi se volete dire la vostra, come sempre i commenti sono aperti.
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